Il titolo originale di questo romanzo del 1846 è Dvojnik, cioè “il doppio”, a sottolineare che l’enigmatico protagonista avrà un alter ego che lo accompagnerà per tutta la storia. In realtà si tratta di un’altra identità della stessa persona, un Doppelgänger che sarà al suo fianco per esaltare il lato oscuro di un modesto impiegato, ingranaggio della gigantesca macchina burocratica dell’ Impero russo. Le vicende si svolgono in una città altrettanto enigmatica, Pietroburgo, luogo a sua volta dal doppio volto ora negativo, ora positivo. Lo stesso Dostoevskij in Memorie del sottosuolo la definisce la “città più astratta e premeditata di tutta la sfera terrestre” che ha ispirato la nascita di un’intera genìa di personaggi letterari condannati alla pazzia (Evgenij nel Cavaliere di bronzo di Puškin, Cartkov nel Ritratto di Gogol’, tanto per citarne alcuni).
Pietroburgo, nella letteratura russa ottocentesca, è strettamente legata al motivo di ascendenza romantica della follia e del doppio ed è forse anche per questo motivo che nel 1866 Dostoevkij rivede il testo iniziale e cambia il sottotitolo in Poema pietroburghese. Il protagonista del romanzo è Jakov Petrovič Goljàdkin e l’azione si svolge in quattro convulse giornate. Il sosia si apre con il risveglio di Goljàdkin, una circostanza che genera il sospetto della prosecuzione di un incubo: «[…] ancora per un paio di minuti egli se ne restò disteso immobile nel suo letto, come se non fosse tuttora pienamente certo di essersi destato o di non stare ancora dormendo, e come in dubbio se tutto ciò che lo circondava gli apparisse nella veglia della realtà o non fosse piuttosto il prolungamento delle sue sconclusionate fantasie notturne» (41).
L’incubo vero e proprio si materializza al termine della prima giornata. Goljàdkin ha appena subito l’umiliazione di essere cacciato in malo modo dalla casa del consigliere di stato Olsùfij Ivànovič Berendèev, un tempo suo benefattore. Goljàdkin vaga per Pietroburgo, indifferente all’implacabile tormenta, disperato, desideroso solo di sparire, di «distruggersi, ridursi in polvere». Ed è proprio in questo momento che, sulla Fontànka, accade l’evento dopo il quale niente sarà più come prima, cioè Goljàdkin incontra il suo sosia: «avrebbe voluto gridare, ma non poté, avrebbe voluto in qualche modo protestare, ma gli mancarono le forze. I capelli gli si rizzarono sul capo e, dallo spavento, cadde privo di sensi là dove si trovava. E in realtà c’era di che spaventarsi; il signor Goljàdkin aveva definitivamente riconosciuto il suo visitatore notturno: quel visitatore notturno non era altri che lui stesso, lo stesso signor Goljàdkin, un altro signor Goljàdkin assolutamente identico a lui, cioè, per dirla in una parola, ciò che si suol chiamare il suo perfetto sosia sotto tutti i rapporti» (95-96).
Superato l’iniziale stupore, Goljàdkin accoglie il sosia in casa e in lui trova un’anima affine, in lui vede un alleato e persino un fratello. Quest’uomo solo, abbandonato a se stesso, in balia delle sue manie, delle sue ossessioni, delle sue debolezze, trova finalmente un essere al quale legarsi, un essere con il quale entrare in sintonia e stabilire un legame affettivo che gli dice: «Ecco, d’ora in poi tu e io, Jàkov Petròvič, andremo sempre d’accordo, […] noi due saremo inseparabili […], ci faremo furbi, intrigheremo di concerto tra noi…organizzeremo un bell’intrigo contro di loro… contro di loro ordiremo le nostre trame. Ma tu diffida di tutti quanti loro» (119-120). Ma è proprio qui che risiede l’aspetto tragico del romanzo perché il sosia, già dal giorno successivo, non si dimostra affatto un alleato o addirittura un fratello, ma l’ennesimo nemico, anzi, il peggiore dei nemici del signor Goljàdkin. E’ a questo punto che inizia il suo progressivo, graduale processo di annientamento, di dissolvenza nel nulla perché il sosia è riconosciuto da tutti, accolto e accettato da tutti gli altri personaggi del romanzo.
Il sosia esiste, non è solamente e semplicemente l’allucinazione di un uomo esasperato, perseguitato dalle proprie manie. Follia e assurdità sono componenti inscindibili, impossibili da escludere. Sonni popolati da visioni mostruose, dormiveglia, strane angosce al risveglio, d’un colpo materializzati in un gemello, in un impiegato che porta il suo stesso nome, una vera e propria copia di se stesso. In men che non si dica l’ambizioso e scaltro Goljàdkin junior, così è definito il sosia, si fa beffe del Goljàdkin senior. Ne usurpa la posizione nell’ufficio dove lavora, si accattiva il favore dei suoi superiori e si avvia verso una brillante carriera ai danni del Goljàdkin originale. Ogni volta che qualcosa di buono si presenta nella vita di Goljàdkin senior, arriva all’improvviso Goljàdkin junior che, col suo comportamento malevolo, i suoi cattivi propositi ed i suoi bestiali impulsi, distrugge la reputazione dell’altro, che finisce per essere respinto da tutti.
Cosa si prova a vedere se stessi agire indisturbati, a vedere che la propria persona è oscurata dalla cattiveria di un identico altro da sé? Goljàdkin senior sente forte il senso di ingiustizia per questa sorte ed afferma che le brave persone non sono mai doppie, vivono secondo onestà, senza ipocrisia e non offendono Iddio e le persone perbene. Ma purtroppo il doppio con cui ha a che fare non è altro che se stesso, con l’altra identità che rappresenta il suo lato oscuro. La materializzazione del doppio è stata infatti letta da molti come il sintomo di un grave disturbo dissociativo, sebbene gli incontri con il doppio rimangano spesso avvolti in una spessa coltre di ambiguità dato che gli altri personaggi non sembrano notare nulla di strano.
Ma si tratta di un espediente narrativo che Dostoevskij usa per mantenere un confine tra piano reale e mondo immaginario generato dalla coscienza di Goljàdkin. L’epilogo è drammatico. Attirato in casa del consigliere di stato Berendèev con una fasulla lettera d’amore, Goljàdkin viene consegnato al dottor Rutenspitz, messo su una carrozza e condotto in manicomio, un luogo isolato, tra i boschi, dove il progressivo, graduale processo di annientamento, di nullificazione del signor Goljàdkin è davvero concluso. Il protagonista scompare dalla scena, distrutto dall’assurdità dell’esistenza e dalla follia ovvero, in entrambi i casi, da se stesso.
Autrice: Dott.ssa Sara Amerini