Traggo questo articolo da un elaborato di tesi in cui la domanda principale era la seguente: come mai ci ricordiamo i sogni? O meglio. Dove affondano le radici i ricordi mnestici del lavoro onirico?

E più in particolare, la domanda sottostante il lavoro era: perché alcune volte ricordiamo i sogni ed altre no?

Cosa succede a livello cerebrale nel recupero del ricordo del sogno? La capacità di accesso al sogno: come funziona? Cosa significa?

Questo articolo si propone come una sintesi del lavoro di tesi fatto a monte, mi scuso quindi se alcune parti risulteranno estremamente sintetiche.

Freud: Sogno come soddisfacimento di un desiderio

Parlando di sogno non si può non condurre l’attenzione alla teorizzazione esplicitata da Freud ne L’Interpretazione dei sogni del 1899-1900, nel quale lo definisce come la soddisfazione di un desiderio.  Alcune critiche sono state mosse verso questa concettualizzazione dal momento che molti sogni non risultano essere piacevoli al sognatore, ma lo caricano bensì di sensazioni negative e vissuti d’angoscia. Freud risponde che i sogni dal nefasto contenuto manifesto possono, una volta analizzati, risultare anch’essi in un compimento di desiderio. L’angoscia accompagnante tali sogni viene definita dall’autore come semplicemente “saldata” al contenuto che l’accompagna, non ne costituisce le fondamenta, e la sorgente e possibile trovarla altrove, come, ad esempio, nell’angoscia che accompagna le fobie nevrotiche.

Viene inoltre da chiedersi perché, se il sogno risulta essere l’adempimento di qualcosa di positivo, non si manifesta direttamente ed utilizza invece diversi meccanismi per mascherare il contenuto latente? Perché il desiderio sottostante al sogno, risponde Freud, potrebbe non essere gradito dal pensiero cosciente. Si tratta infatti di desideri autentici, che spesso non sono accettati dal sognatore, e quindi si manifestano in forma mascherata. Freud porta ad esempio il sogno sull’amico R. Il pensiero nascosto in tale caso è il non avere una grande opinione di questo amico, ma l’autore, non accettando questa condizione, la trasforma nell’opposto. Nel sogno infatti rivela di provarne
tenerezza.

Emerge a questo punto un altro componente della rappresentazione onirica: la censura. Il desiderio conduce all’espressione del sogno, ma la censura si applica su tale desiderio inconscio, risultando in una deformazione nella manifestazione di tale desiderio. Il sogno infatti viene rappresentato nella sua forma manifesta attraverso il lavoro onirico. La censura si serve di tutti i meccanismi utilizzati dal lavoro onirico per poter rendere accessibili e parzialmente accettabili desideri, pulsioni, percezioni o pensieri non coscienti. Prerogativa di tale istanza è quindi l’accessibilità del contenuto onirico a livello cosciente, essa si comporta di fronte al sogno “in maniera difensiva, non creatrice”. Con l’introduzione della censura onirica si arriva ad un’ ulteriore definizione dei sogni a contenuto sgradevole come comunque di una soddisfazione di un desiderio inconscio, si tratta infatti di un lavoro di mediazione fra desiderio, censura ed accesso alla coscienza.

Mi accingo ora ad un breve excursus della teorizzazione freudiana dei meccanismi onirici, cercando di non perdere il filo in un groviglio di dettagli. Come appena anticipato il sogno viene quindi prodotto dal lavoro onirico, suddiviso da Freud in contenuto manifesto, ciò che sussiste nel ricordo, e contenuto latente, al quale è possibile giungere tramite l’interpretazione (1899-1900).
Come suggerisce l’autore si può pensare gioco del rebus: se viene semplicemente colto come una composizione grafica, il senso sfugge; occorre un’opera di interpretazione e decodifica per poterne
cogliere il significato.
Il contenuto manifesto del sogno e molto più conciso e sintetico rispetto ai contenuti latenti. E’ a questo proposito che entra in gioco il meccanismo della condensazione. Freud afferma che non possiamo mai essere totalmente sicuri di essere giunti alla conclusione dell’interpretazione di un sogno, in quanto il quoziente di condensazione è ipoteticamente interminabile. La condensazione lavora infatti tramite l’omissione.
Un altro meccanismo operante nel lavoro onirico e quello dello spostamento. Spesso infatti gli elementi del sogno che sono sotto la luce dei riflettori, in primo piano sulla scena onirica, non hanno un ruolo rilevante nei pensieri latenti. Può addirittura essere che il contenuto centrale di tali pensieri non sia proprio rappresentato nella formazione manifesta. Basti pensare a questo proposito al sogno della monografia botanica analizzato da Freud.

Un ulteriore spostamento è quello che avviene fra le rappresentazioni, ponendo quindi una cosa per un’altra, collegate da livelli più o meno diretti di associazioni. In questo caso può essere usato il termine di rappresentazione indiretta, un meccanismo che avvicina il lavoro onirico al linguaggio poetico, facendo largo uso di similitudini, metafore e metonimie.
Un ulteriore meccanismo operante nel lavoro onirico e l’elaborazione secondaria, descritta da Freud come la più familiare al sognatore, accostandosi infatti al pensare ordinario della vita diurna.
E’ nella natura insita di questo meccanismo mettere ordine nei contenuti onirici, creando nessi logici e dando coerenza al racconto che ne scaturisce.

Introduzione del simbolico

Con la paralisi motoria prodotta dallo stato di sonno, la mente lavora principalmente con la produzione di immagini tramite il rifacimento visivo. Si trova qui un primo riferimento all’accesso al simbolico. Freud descrive la relazione simbolica come “un segno identificativo dell’identità di un tempo” (1899-1900). Viene quindi fatto riferimento alla vita infantile ed ancestrale.
Secondo il modello del codice multiplo ideato da Bucci (1977), gli individui elaborano le informazioni secondo tre modalità: il modo subsimbolico, il modo simbolico non verbale ed il modo simbolico verbale. La relazione simbolica può quindi avere accesso e costituirsi anche a partire da memorie infantili non ancora approdate al mondo della verbalizzazione. Mancia parla di memorie inconsce, inconsapevoli e preverbali (2008) cui è negato l’accesso al pensiero cosciente ma che possono presentare del materiale atto all’elaborazione e alla produzione del materiale onirico. Nel saggio Ricordare, ripetere e rielaborare (1914) Freud cita: “Per una specie particolare di situazioni
assai importanti che si verificano in un’epoca assai remota dell’infanzia […] non è in genere possibile suscitare il ricordo. Si arriva a prenderne coscienza attraverso i sogni”.

Sembra che l’abbia presa molto larga, ma piano piano mi sto avvicinando al punto in questione, alla domanda sollecitata. Quando un paziente che non era solito ricordare i sogni (o portarli in seduta) si apre al contenuto onirico, si intravede il passaggio al simbolico. “Il sogno è espressione del piano simbolico e dell’accesso all’inconscio”. […] Quando un paziente racconta un sogno in seduta inevitabilmente, ed a volte suo malgrado, consegna al terapeuta un materiale molto più autentico rispetto a quando organizza un discorso. Quando nel corso della terapia un paziente comincia a sognare siamo avvertiti di un cambiamento in atto, di un’apertura al simbolico” (Settembrini, 2017).
Questo lavoro risulta molto utile in quelle che Freud chiama nevrosi attuali, le odierne somatizzazioni, in cui i sintomi non sono connessi ad un piano simbolico, ad una rappresentazione di parola, e quindi non analizzabili. Il lavoro in questi casi sarà quello di costruzione del ponte di contatto, di alfabetizzazione, per prendere in prestito un termine bioniano. In un funzionamento patologico ad esempio non c’è relazione fra rappresentazione di cosa (sachvorstellung) e rappresentazione di parola (wortvorstellung). La pulsione si fissa alla prima negando l’accesso al mondo dei simboli.

L’oblio

Freud (1899-1900) circa l’oblio dei sogni fornisce una serie di spiegazioni. Cita l’intensità delle sensazioni. Da svegli, ad esempio, dimentichiamo tante percezioni perché sono troppo deboli e non vengono fissate nella nostra memoria, per la stessa ragione dimentichiamo alcune immagini dei sogni, perché non abbastanza incisive. E’ possibile in questo modo ricollegarsi ad un’ipotesi di non attività della memoria di lavoro durante la produzione del materiale onirico: una mancanza di attivazione di tali circuiti impedisce il deposito dell’informazione nel magazzino della memoria a lungo termine, da cui i ricordi sono in seguito più facilmente recuperabili.
Un secondo fattore, afferma l’autore, è la ripetizione. Così come da svegli, anche nel sogno ricordiamo meglio ciò viene ripetuto, spesso però le immagini presentate nel sonno sono uniche e si presentano una sola volta. Ciò contribuisce notevolmente alla dimenticanza dei sogni. A questo proposito è risaputo che i ricordi sono maggiormente fissati se l’informazione viene rivista e rivisitata, si pensi ad esempio alla preparazione di un esame o alla riabilitazione di pazienti con deficit mnestici.

Spesso dimentichiamo il sogno mano a mano che avanziamo nella giornata, nonostante venga messo in atto un grande sforzo per ricordarlo. Secondo l’autore viene, però, sovrastimata la portata di tale oblio, tutto ciò che esso ha costato al materiale onirico lo possiamo difatti ritrovare in analisi.
E’ possibile cioè recuperare non tanto le immagini del sogno, ma le idee ed i pensieri sottostanti.
L’oblio risulta infatti essere una resistenza al trattamento, come Freud descrive con la Demostratio ad oculos, una “dimostrazione davanti ai nostri occhi”: egli riporta il caso di un paziente che afferma di aver sognato ma al contempo di aver dimenticato il contenuto del sogno. Durante il lavoro analitico Freud si scontra con una resistenza, ne discute con il paziente e lo aiuta a riconciliarsi con un pensiero sgradevole. Non appena quest’ultimo riesce in questo intento, ricorda anche il contenuto del sogno prima dimenticato, la resistenza aveva di fatto condotto all’oblio del sogno. “L’esperienza psicoanalitica”, scrive l’autore, “ci ha offerto un’ulteriore prova del fatto che l’oblio dei sogni dipende molto più dalla resistenza che dal fatto che gli stati di veglia e di sonno siano stranieri gli uni agli altri”. Affermazione che segue di pari passo le scoperte neuroscientifiche sull’attività elettrica durante il sonno paradosso.

Evoluzioni nella teorizzazione psicoanalitica del sogno

Melanie Klein: il sogno in relazione

Negli anni ’30, grazie al contributo di Melanie Klein, cambia la definizione di sogno. Esso non è più esclusivamente la soddisfazione mascherata di un desiderio inconscio, come descritto nella teorizzazione di Freud, ma diventa la rappresentazione del mondo interno dei pazienti (Klein, 1932). Nel sogno viene quindi raffigurato il mondo relazionale del paziente ed esso acquisisce un’ulteriore importanza poiché diventa uno strumento per poter monitorare lo stato attuale della persona, oltre che un mezzo di accesso al materiale inconscio.

Il simbolo

Il tema della formazione dei simboli viene affrontato da Klein nel saggio “L’importanza della formazione dei simboli nello sviluppo dell’Io” del 1930 (1978). In questo scritto l’autrice individua l’inizio della formazione del simbolismo nel sadismo del bambino. A cavallo fra la fase sadico-orale e lo stadio anale il bambino deve fronteggiare un grandissimo grado di angoscia, compito molto difficile data la non ancora completa formazione dell’Io. Egli ha infatti come fine quello di distruggere la madre e tutti gli oggetti che la popolano, fra cui anche la figura paterna. Al contempo l’autrice individua l’esordio di un primo conflitto edipico, generatore del timore di essere punito per i suoi attacchi sadici. Quest’angoscia viene interiorizzata per mezzo di un’introiezione sadico-orale, creando un senso incredibilmente opprimente e terrorizzante. In questa situazione le difese a cui il bambino si rivolge sono molto primitive rispetto alla più tardiva rimozione, non essendo appunto l’Io ancora completamente sviluppato. Metterà infatti in atto i meccanismi della distruzione e dell’espulsione, della posizione schizo-paranoide.
Il bambino immagina gli organi come oggetti minacciosi e l’angoscia che ne deriva lo porta a creare delle parificazioni di tali organi con altre cose, che diventano a loro volta oggetti d’angoscia.
Egli stabilisce quindi nuove e continue parificazioni che costituiranno la base per lo sviluppo del simbolismo. Questo viene descritto da Klein come “la base di tutte le sublimazioni e di ogni talento per il fatto che cose, attività e interessi diventano materia di fantasie libidiche in forza della parificazione simbolica”.

 

La fantasia

Per l’autrice le fantasie inconsce sono attive nella mente del bambino fin dalla prima infanzia, contrariamente a quanto teorizzato precedentemente dalla teoria freudiana. Ciò implica che la fantasia inconscia si formi a partire da un’esperienza fisico-percettiva, il seno allucinato: la fame e l’appagamento di questa vengono vissute dal bambino come fantasie di relazioni con l’oggetto.
Secondo l’autrice la fantasia ha quindi radici nella profonda intimità della persona. Viene descritto come un processo caratterizzato da estrema autenticità, proprio come il materiale onirico. Come il sogno la fantasia può essere letta come una possibilità di restare in contatto con il proprio Sé, “si potrebbe dire che usano lo stesso linguaggio”, le fantasie sono “fatte della stessa sostanza di cui sono fatti i sogni”. In riferimento all’accesso a memorie pre-verbali.

 

Wilfred Bion: il sogno come generatore di significato

Secondo Wilfred Bion (1970), il sogno può svolgere la funzione di evacuazione di un contenuto.
L’analista svolge un ruolo sostanziale nello strutturarsi della funzione pensiero del proprio paziente.
L’autore afferma che egli “cerca qualcosa di diverso da ciò che viene comunemente inteso come realtà”, e per fare ciò si astiene da desiderio e memoria, ed anche, aggiunge, dal comprendere e dalle impressioni sensoriali. L’aspirazione del lavoro analitico viene chiamata dall’autore O, ed è di difficile definizione: e il tutto, il fine ultimo, “l’ignoto, l’inconoscibile, l’infinito senza forma”. Si può intravedere in questo modo quanto il sogno possa giocare un’importanza conoscitiva all’interno di questa teorizzazione, collocandosi in una dimensione fra realtà ed irrealtà, finito ed infinito, presente e passato, sensorialità ed immaginazione.

In collegamento quindi con il materiale onirico, lo stato di desiderio implica per definizione un non soddisfacimento, collegandolo alla via di accesso alla condizione O. Per essere raggiunta tale condizione, la mente dell’analista deve quindi essere sgombra di preconcetti ed aspettative, per poter disporre dello spazio necessario al nuovo e all’inatteso.
Meltzer amplia la teorizzazione bioniana dal momento in cui presuppone che la vita che popola il mondo interno dell’individuo, compreso il materiale onirico, sia reale quanto quella del mondo esterno e della vita diurna. E’ importante per l’autore assegnare piena significanza ad entrambe. Per quanto riguarda il mondo interno, Meltzer parla di un posto in cui “il significato viene generato” (1984), il sogno può quindi essere visto come un generatore di conoscenza sulla propria persona, in accostamento alla condizione O bioniana.
Ne La vita onirica, Meltzer identifica le emozioni come il nocciolo significativo della trasformazione simbolica, il sogno, afferma, riesce a creare forme simboliche adeguate alla rappresentazione emotiva. Pone l’esperienza emotiva al centro del significato e della generazione di conoscenza. Continua collocando gli affetti in una posizione geneticamente anteriore ai pensieri, più ancestrale, secondo l’autore hanno un’origine più primitiva dei pensieri coscienti ad essi collegati, e si fanno quindi custodi di una verità sepolta dal progredire dello sviluppo filo ed ontogenetico. Ritornano in mente le parole di Freud sull’accesso al simbolico come “segno identificativo dell’identità di un tempo”.

Sogno e neuroscienze

Per anni si è creduto che il cervello, durante le ore di riposo, cadesse in uno stato di isolamento ed in una posizione per così dire passiva rispetto al resto del corpo. Oggi sappiamo che continua ad esercitare molte funzioni. La dimostrazione della straordinaria attività cerebrale durante le ore di sonno è stata definitivamente dimostrata con l’avvento negli anni ’30 dell’elettroencefalogramma.
L’EEG ha permesso di scoprire, nel 1953 ad opera degli scienziati Kleitman e Aserinksy, la presenza delle fasi del sonno e quindi del famoso sonno REM, o “sonno paradosso” (Purves, 2013).
Il sonno attraversa vari cicli, caratterizzati da specifiche attività elettriche. Nell’ultima fase l’attività elettrica cerebrale subisce un brusco cambiamento di ritorno ad onde tipo Teta e d Alfa, onde più basse e rapide, formando un tracciato simile a quello di un sonno leggero, pur essendo il soggetto completamente addormentamento. Da questa particolarità dell’attività cerebrale deriva il termine di “sonno paradosso”, il sonno REM, caratterizzato da un’attività cerebrale simile appunto allo stato di veglia, con un ritmo per cosi dire “desincronizzato”, in cui i bulbi oculari ricominciano a muoversi rapidamente (Rapid Eye Mouvement). Tutto l’organismo appare sollecitato, a partire ad
esempio dai lobi occipitali dell’encefalo, deputati alla rappresentazione visiva; vi è un incremento nella produzione di neurotrasmettitori, in particolare di dopamina; si registrano anche impulsi che avrebbero come target i motoneuroni, se non fossero poi inibiti a livello del tronco encefalico (Purves, 2013). Studi sperimentali dimostrano che è in questa fase del sonno che viene maggiormente prodotto il sogno (Leoncini, 2005).
Nel sonno REM l’attivazione delle strutture pontine stimolerebbe la produzione di informazioni caotiche che, una volta raggiunto il proencefalo ed il sistema limbico, costituirebbero la trama del sonno congiunta alla partecipazione emozionale (Mancia, 1982). L’amigdala in particolare sembra svolgere un ruolo cardine nella produzione del materiale onirico. Essa infatti è connessa, oltre che con centri sottocorticali deputati alle risposte di natura viscerale, anche a centri di elaborazione superiore della neocorteccia, in particolare con aree mediali ed orbitali del lobo frontale. Risulta perciò essere un nodo centrale per l’elaborazione dell’esperienza emotiva, di collegamento fra i centri sottocorticali primitivi e il pensiero cosciente. Un collegamento fra memoria ancestrale, pre-verbale, inconscia e pensiero cosciente?

Sogno e affettività

Un’ipotesi che emerge è che il sogno possa essere narrato solo nel momento in cui vi sia uno spazio idoneo, che consenta il pensarlo. L’affettività narrata può creare il ponte necessario per accedere al simbolico e all’inconsapevole, ed aprire le porte delle memorie inconsce che trovano uno luogo per essere ritrovate. La persona sognante deve quindi potersi sentire in un posto in cui l’affettività esiste e viene riconosciuta, ed anzi a cui ne viene data una corporeità tale che essa possa iniziare a parlare, anche tramite l’attività onirica. “Sosterrò che il ‘punto di contatto con la biologia’ cui Freud faceva riferimento dovrebbe essere ricercato in maniera specifica nel ruolo centrale che i processi psicobiologici del cervello destro hanno relativamente all’organizzazione e alla regolazione degli affetti, della motivazione e della cognizione inconscia (Schore, 2003)”. L’autore continua affermando che: “per quanto i modelli psicoanalitici dei sistemi strutturali interni non dovrebbero essere ridotti alla neurobiologia, essi dovrebbero però essere compatibili con le attuali conoscenze della struttura cerebrale”.
La corteccia orbitofrontale sembra avere un ruolo fondamentale in questo processo. Essa riceve afferenze multimodali dal talamo, dai circuiti limbici, da tutte le aree sensoriali, ed invia efferenze alle aree motorie, passando cioè dal tronco encefalico. Sono presenti diramazioni anche verso le aree limbiche, l’amidgala, i centri sottocorticali e l’ipotalamo, coinvolto nell’elaborazione mnestica.
Efferenze inoltre ai centri mesencefalici coinvolti nei sistemi di ricompensa e vigilanza, ai nuclei vagali ed al midollo allungato. Si tratta quindi della corteccia associativa per eccellenza, in cui il segnale passa continuamente dai centri sottocorticali alla neocorteccia e viceversa; chiama a raccolta un gran numero differenziato di aree cerebrali e coordina un’altamente complessa rete neurale.
La regione orbitofrontale e implicata in maniera esclusiva nei comportamenti sociali ed emozionali e nella regolazione omeostatica degli stati motivazionali e del corpo” (Schore, 2003).
Essa infatti influenza anche la produzione ormonale dell’ipotalamo, della ghiandola pituitaria e delle ghiandole surrenali, regioni di attivazione in caso di risposta emotiva. La sua risulta perciò essere proprio una funzione di mediazione fra la lettura degli stati di attivazione interna, provenienti da parti più viscerali della persona, e gli stimoli esterni e la realtà oggettiva. Si tratta cioè di una regione di scambio e di relazione per eccellenza, senza dimenticare che e implicata anche nella produzione di materiale onirico ed ha collegamenti con i sistemi mnesici.
Si potrebbe quindi supporre che e in questa regione che avviene l’apertura al simbolico e la capacità di accesso al ricordo del sogno, nel momento in cui, nella relazione transfert-controtransferale, viene creato lo spazio adatto al presentarsi dei contenuti. Sembra cioè che il lavoro analitico possa stimolare la regione orbitofrontale tanto che essa possa riuscire ad accedere a contenuti precedentemente inaccessibili.
Il collegamento di questa regione fra le strutture sottocorticali e la neocorteccia offre uno spunto di riflessione anche in relazione al sogno come appagamento di un desiderio. Essa infatti media continuamente fra gli impulsi provenienti dal mondo viscerale e profondo dell’individuo, e le aspettative della realtà esterna. Secondo la teorizzazione freudiana, proprio come il sogno essa si configura come un compromesso sviluppatosi dal soddisfacimento di un desiderio inaccettabile ed il lavoro della censura. “La corteccia orbitofrontale […] ha un ruolo fondamentale nel mediare fra l’ambiente esterno e quello interno, nel bilanciare i desideri interni con la realtà esterna e nel modulare l’eccitazione degli impulsi cosi come la loro regolazione […] sceglie le associazioni mentali coerenti con la realtà esterna […] questo meccanismo permette il libero flusso di associazioni mentali, ma assicura anche che il pensiero e il comportamento possano essere sempre aderenti al piano di realtà” (Schore, 2003).

Sogno e relazione

In riferimento alla teorizzazione kleiniana, si può pensare ad un possibile coinvolgimento nelle rappresentazioni oggettuali dell’individuo per quanto riguarda il ruolo centrale che la corteccia orbitofrontale occupa nel passaggio fra interno ed esterno. Quest’area cerebrale sembra difatti giocare un ruolo essenziale anche nel mondo relazionale dell’individuo, in quanto le reti neurali che la popolano scaricano in reazione ad espressioni emotive del volto umano, implicando quest’organizzazione anche nei processi di attaccamento e relazione. Sembra quindi che anche le neuroscienze, in accordo con la psicoanalisi, attribuiscano un’importanza fondamentale alle relazioni di attaccamento, in particolare ponendo l’accento sullo sviluppo della corteccia orbitofrontale nella diade primaria. Schore (2003) afferma infatti l’importanza delle esperienze della prima infanzia, in quanto fonte di ciò che andrà poi a costituire le basi della memoria implicita.
Tali modelli relazionali saranno in seguito trasposti nella relazione paziente-analista. Le comunicazioni che avvengono in questo spazio vengono descritte da Schore come “rapide transazioni affettive non verbali fra emisfero destro ed emisfero destro”. Una comunicazione che travalica quindi quella verbale per poter far si che si instauri una possibilità di accesso al materiale inconscio ed inconsapevole.
Un dato interessante riportato da Schore (2003), indica come la rievocazione di un ricordo specifico ed il conseguente racconto di questo ad una seconda persona, mostri un incremento del flusso sanguigno nelle aree orbitali prefrontali. Quest’area inoltre viene attivata anche quando si chiede al soggetto di lasciar riposare le mente e far affluire liberamente i pensieri, riflettendo il metodo delle libere associazioni richiamato dalla psicoanalisi.
Si può quindi notare come vi sia una forte correlazione fra le scoperte neuroscientifiche ed il lavoro portato avanti dalla psicoanalisi per quanto riguarda l’elaborazione degli affetti. Nella relazione infatti il paziente può riuscire ad avere accesso al contenuto onirico, alla rappresentazione simbolica.
La corteccia orbitofrontale agisce quindi da “mediatore funzionale nella capacità di provare empatia per i sentimenti dell’altro e di riflettere sui propri stati emotivi cosi come su quelli altrui”.
Spezzano (1993) ipotizza che la relazione analitica “inneschi dei cambiamenti specifici nelle strutture inconsce di regolazione affettiva del paziente”, consentendo di acquisire progressivamente la capacità di dare significato all’esperienza, reale ed onirica.
Anche Schore (2003) supporta questa prospettiva affermando come “l’inconscio dinamico possa diventare sempre più complesso in seguito a un trattamento psicoanalitico efficace e focalizzato sugli affetti”. Ricollegandosi a quanto descritto precedentemente, anche Meltzer afferma l’importanza della relazione per poter avere accesso al materiale onirico, e come questo possa essere impegnativo per entrambi i componenti della coppia analitica, paziente e terapeuta. Freud ricollegava l’oblio dei sogni alle difese dei pazienti, alla difficoltà di lettura del sogno, all’evanescenza delle immagini oniriche in confronto alla corporeità della vita sensibile, e Meltzer, sulla scia della teorizzazione bioniana di un analista privo di memoria e desiderio, ricorda anche la disponibilità da parte dell’analista di lasciare spazio all’emergere dei contenuti.
Il sogno viene quindi visto come un evento che attinge alla vita mentale di entrambi componenti della relazione. Il processo di simbolizzazione, attingendo all’epistemologia del termine, incontra quindi il paziente e l’analista nel creare un senso nuovo e condiviso (Mancia, 1996).
Damasio nel 1995 affermava che “le emozioni sono state benevolmente trascurate dalle neuroscienze a favore dello studio dell’attenzione, della percezione, della memoria e del linguaggio”. E’ possibile oggi aprire un passaggio verso lo studio di questo territorio in gran parte ancora inesplorato che possa permettere una sempre più completa conoscenza dei meccanismi in gioco, e facendo ciò, coniugare discipline all’apparenza divergenti come le neuroscienze e la psicoanalisi.

 

Autrice: Dott.ssa Giulia Del Bene

Revisora: Dott.ssa Sabrina Masetti

 

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