La pratica clinica, il riscontro con i colleghi e la comunità professionale, ed anche le chiacchiere con gli amici mi portano spesso a riflettere su un aspetto che spesso emerge: l’andare dallo psicologo, anzi meglio, il dire di andare dallo psicologo è un argomento spinoso. Come mai?

Come pensiero latente credo ci sia quello che andare da un professionista della salute mentale sia spesso associato all’idea “sono pazzo”, oppure “la gente penserà che sono pazzo”, o “non sono normale”. Pazzo, normale.
Pazzo in particolare rimanda all’etichetta diagnostica che purtroppo è molto difficile da scollare. Rimane infatti un accostamento con il mondo medico-psichiatrico, il mondo della scienza esatta che però nel campo psicologico può creare delle difficoltà. La diagnosi è molto utile per poter orientare il lavoro di cura. Ma dovrebbe essere strumentale alla via di benessere della persona, e non essere un mezzo per incasellarla in parametri rigidi che rimandano a sentimenti di vergogna e di diversità. Mi risuonano le parole del Dott. Lingiardi: “[la diagnosi] non è assegnare un’etichetta, ma iniziare a formulare un caso, saper stare nella tensione benefica che ci sospende tra la categoria generale che classifica un disturbo e la storia individuale che, in quel paziente, lo rende unico”.

Si può pensare alla diagnosi abitata da due aspetti che coesistono e si armonizzano continuamente: quello quantitativo e quello qualitativo. Il percorso diagnostico si co-costruisce fra paziente e terapeuta, come un continuum, da una situazione di gravità, in cui si viene soverchiati ed anche la vita quotidiana risulta compromessa; ad una in cui la persona riesce a vivere in armonia con le proprie difficoltà. Ad un congresso della società psicoanalitica italiana tenutosi nel maggio 2016, Izzo nel parlare di diagnosi ne ha ricordato il valore rintracciato da Petrella nell’etimologia della parola stessa, dia-gnosis, un conoscere attraverso e insieme. Torna quindi l’idea di diagnosi come funzionale alla costruzione di un lavoro insieme, di una diagnosi come percorso, non rigida ma in continuo mutamento ed evoluzione. L’assegnazione di un’etichetta in fondo semplifica un processo estremamente complesso di definizione di una persona, una “paura-rifiuto della complessità” (Lingiardi, 2018).

Parlando di diagnosi è difficile non riferirsi ad DSM, Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali, ormai arrivato alla 5a edizione. Dalla prima pubblicazione negli anni ’50 negli Stati Uniti (’80 in Italia) è cambiato molto. Resta un punto di riferimento come linguaggio comune alla comunità professionale di medici e psicologi. Un modo per capire di cosa stiamo parlando. A mio avviso è sempre utile tenere a mente che difficilmente le caratteristiche umane, della mente in particolare, possano essere racchiuse in categorie così schematiche e definite come tale manuale suggerisce.

Il DSM è forse il manuale più universalmente riconosciuto. Ma non è l’unico, e i manuali non sono l’unico modo di fare e concepire la diagnosi. Questa attira ma allo stesso tempo intimidisce. Attira forse per curiosità, per capire e finalmente avere un’idea di come il fatidico “altro” possa vederci. Sto pensando ad esempio al PDM, Manuale Diagnostico Psicodinamico, alla cui seconda edizione hanno lavorato i Dott. Lingiardi e McWilliams (McWilliams, 2019). Quest’ultima parla del manuale in un’ottica di conoscenza, invece che diagnosi.

La trovo un’apertura priva dello stigma che tanto accompagna la categorizzazione dei disturbi mentali, e delle persone. L’autrice si interroga molto sulle difficoltà che l’approccio terapeutico psicoanalitico si trova ad affrontare in questo periodo. La società chiede infatti risposte rapide, efficaci, in tutto. Anche in campi in cui può non essere semplice. Perché l’uomo è un essere complesso, e i tempi di una cura non sono facilmente prevedibili, proprio perché in quanto umani, mal ci adattiamo a schemi rigidi: “siamo spinti ad essere tecnici, non curanti dell’anima” (McWilliams, 2019). Basti pensare che il termine greco Psyche di per sé rimanda all’anima.

Mi sto dilungando sul concetto di diagnosi perché credo vada a costituire gran parte del pregiudizio che accompagna l’”andare dallo psicologo”. L’avere una diagnosi, l’avere qualcosa che non va. Quello che sto cercando di esporre è che i due termini non vanno per forza di pari passo, anzi. “Non dirmi che tipo di disturbo ha il paziente, dimmi che tipo di paziente ha il disturbo”, diceva già Ippocrate.
Citando Bollas, Lingiardi (2018) parla di una società psicofobica, e del culto imperante della normalità. Di una personalità “ammalata di normalità”. Normalità, a mio parere, risulta una parola vuota, priva di un significato profondo, ed anche poco interessante. Oggi si chiedono soluzioni veloci, “operative” (Lingiardi, 2018), senza forse tenere a mente la natura stessa della nostra umanità. Nella definizione della Treccani, “normale” richiama in primissima battuta a definizioni di carattere geometrico. Anche “Il matto” di De’ Andrè imparò la Treccani a memoria, ciò non lo esimò dallo stigma: “continuarono gli altri fino a leggermi matto”.

Per concludere molto ci sarebbe ancora da scrivere. Perché mi sono soffermata tanto sul concetto di diagnosi? Perché credo che l’andare da uno psicologo, in psicoterapia, sia ancora stigmatizzato come “non essere normale”, essere pazzo appunto. Mi piacerebbe concludere con delle parole di Terenzio citate da McWilliams (2017): “Poiché sono umano, nulla di umano mi è estraneo”. In una società sempre volta alla performance, in cui vige il culto del narcisismo, le debolezze non sono previste. Ma in questo modo ne emerge un’umanità dimezzata, a mio avviso. L’essere pieni e consapevoli di tutte le nostre parti è un surplus, e non un difetto.

 

Autrice: Dott.ssa Giulia Del Bene

Revisore: Dott.ssa Eleonora Sirsi

 

Bibliografia:

14 Maggio 2016 CpdR: Il paradosso della diagnosi in psicoanalisi: https://www.spiweb.it/eventi/14-maggio-2016-cpdr-il-paradosso-della-diagnosi-in-psicoanalisi/
Lingiardi, V. (2017) Fare diagnosi oggi: DSM-5, PDM-2, SWAP-200. Sapienza, Università di Roma.
McWilliams, N. (2012) La diagnosi psicoanalitica. Casa Editrice Astrolabio.
McWilliams, N. (2017) Dalla diagnosi differenziale alla diagnosi dimensionale: implicazioni per il trattamento. Bergasse 19.
McWilliams, N. (2019) Psicoanalisi oggi e domani. Preservare il sapere psicoanalitico per i terapeuti, i pazienti e il mondo in generale. Bergasse 19.
Normale, definizione Enciclopedia Treccani: https://www.treccani.it/vocabolario/normale/
La Repubblica, 23 novembre 2018: Vittorio Lingiardi a colloquio con Christopher Bollas. Il culto malato della normalità: https://www.spiweb.it/stampa/la-repubblica-23-novembre-2018-vittorio-lingiardi-colloquio-christopher-bollas-culto-malato-della-normalita/
Rossi Monti M. (2017) La diagnosi come nome, la diagnosi come verbo. https://www.spiweb.it/ricerca/ricerca-empirica/rossi-monti-m-2017-la-diagnosi-come-nome-la-diagnosi-come-verbo-giornata-nazionale-di-ricerca-they-are-people-roma-28-genn-2017/